Pacì Paciana

Eugenio Goglio
Pacì Paciana

Pacì Paciana, al secolo Vincenzo Pacchiana, nacque a Poscante nella contrada del Ponte di Zogno e vi gestiva un’osteria affacciata sul Brembo, proprio accanto a quella del “Bianco”, tuttora esistente. La sua casa, ancora riconoscibile per il tetto basso a strapiombo sul fiume, si trovava lungo l’antica strada che, costeggiando la riva sinistra del Brembo, conduceva a Bergamo: un passaggio obbligato per mercanti e viaggiatori che facevano tappa nelle numerose locande sorte attorno al ponte.

Una sera giunsero due sconosciuti in cerca di vitto e alloggio. Prima di coricarsi pregarono l’oste di svegliarli all’alba e di comunicare loro l’ora, poiché erano privi di orologio. Pacì, orgoglioso del cimelio ereditato dal padre, offrì senza esitazione il proprio segnatempo, promettendo di destarli di buon’ora. Conseguito il prezioso oggetto, i viandanti si ritirarono a dormire.

Carlo Ceresa
Il furto dell’orologio e la resa dei conti sul ponte

All’indomani Vincenzo si alzò per tempo, ma scoprì che i due si erano dileguati di soppiatto portandosi via l’orologio. Intuendo il furto, uscì di corsa sulla vecchia strada e li avvistò già a metà del ponte. Li raggiunse, esigendo la restituzione; alle loro sdegnate negazioni afferrò uno dei ladri, sospendendolo oltre la spalletta del ponte minacciandone la caduta nel vuoto. Terrorizzato dall’altezza, l’uomo cedette restituendo il bottino; Pacì, risoluta giustizia sommaria, lo rimise in sicurezza rifilandogli però un ceffone e una pedata prima di lasciarlo andare.

Offeso e smascherato, il malandrino corse dai gendarmi napoleonici denunciando l’oste per furto e aggressione. Ai soldati raccontò che l’orologio era dei viaggiatori e che, reclamandolo, erano stati brutalmente picchiati. Le autorità credettero alla versione del forestiero; ignorando le proteste di Pacì, lo arrestarono, lo processarono sulla base delle deposizioni dei militari e lo condannarono a un periodo di detenzione.

Carlo Ceresa
Dall’ingiustizia alla latitanza: nasce il “bandito buono”

Quando tornò in libertà, Pacchiana era un uomo cambiato: l’ingiustizia subita gli aveva instillato un rancore profondo verso un potere che proteggeva prepotenti e truffatori. Da quel momento, ogni furto o misfatto commesso in paese venne attribuito a lui; per sfuggire a nuovi arresti si rifugiò nei boschi e scelse la latitanza, avviando la lunga vicenda che lo avrebbe trasformato nel leggendario brigante della Val Brembana.

Pur ricercato dalla giustizia, Paci’ Paciana fu poi ricordato come un “bandito buono”: rubava ai ricchi per aiutare i poveri, puniva usurai e imbroglioni, e rimase, nella coscienza popolare, un simbolo di onestà offesa e di ribellione contro l’arbitrio dei potenti.

Carlo Ceresa
Complicità a Bracca e promessa di padrino

Pacì Paciana, che in quel periodo trovava rifugio tra i boschi scoscesi e i cimiteri di Bracca per tenere d’occhio gli inseguitori, aveva instaurato un rapporto di solidarietà con gli abitanti del paese, in particolare con la famiglia Dentella. Quei contadini montanari non gli negavano mai un piatto caldo né un giaciglio, e anzi lo curavano quando, dopo qualche scontro con i gendarmi, tornava ferito o febbricitante. Fu così che Pacì strinse un patto con la giovane moglie del suo amico: se fosse nato un figlio maschio, lui avrebbe fatto da compare al battesimo, promettendo di presentarsi a qualunque costo nonostante la taglia sulla sua testa. La notizia, rimbalzata di cascina in cascina, finì anche nelle orecchie delle guardie napoleoniche, che fiutavano l’occasione di catturarlo cogliendolo in flagrante davanti a mezzo paese.

Carlo Ceresa
La trappola dei gendarmi e il diversivo di Nicola

Venuto alla luce il sospirato maschio, Bracca s’animò: curiosi, contadini dei paesi vicini e gendarmi in divisa e in borghese gremivano la contrada per assistere al battesimo annunciato. Il corteo partì dalla casa dei Dentella diretto alla chiesetta, ma Pacì non si vedeva. A un certo punto una ragazzina corse gridando di averlo scorto in fondo alla mulattiera; le guardie piombarono a valle e bloccarono l’uomo che stava salendo. Grande fu la loro delusione nello scoprire che non era Pacì bensì l’amico Nicola, truccato e vestito esattamente come lui: uno specchietto per le allodole predisposto dal brigante per guadagnare tempo.

Carlo Ceresa
Travestimento in chiesa e battesimo segreto

Intanto, dentro la chiesa, la cerimonia proseguiva: la bambina che reggeva il neonato si avvicinò alla fonte battesimale e notò, seduta su un banco in penombra, una “vecchia” che con un cenno d’intesa strizzava l’occhio al padre del bambino. Era proprio Pacì Paciana, abilmente travestito da donna anziana. Preso in braccio l’infante, si avvicinò al sacerdote e il bimbo fu battezzato sotto lo sguardo ignaro dei presenti. Senza farsene accorgere, il brigante infilò fra le fasce del neonato due luccicanti zecchini d’oro, restituì il batteszzato alla ragazza, poi sgattaiolò nell’angolo più buio della chiesa, si liberò degli abiti femminili e uscì sul sagrato.

Carlo Ceresa
Travestimento in chiesa e battesimo segreto

Una volta all’aperto, ebbe persino il gusto di chiamare a gran voce i gendarmi che ancora interrogavano il povero Nicola: appena questi si mossero per inseguirlo, Pacì era già sparito tra i castagni. Da quel giorno, per gratitudine, in casa Dentella si continuò a imporre il nome Vincenzo ai figli maschi, mentre a Bracca si narra ancora di quel battesimo audace che rese ridicolo il potere e accrebbe la fama leggendaria del “bandito buono”.

Carlo Ceresa
La lepre del sindaco e l’invito sospetto

Il sindaco di Bracca, noto per la sua passione sfrenata per la caccia alla lepre, un giorno si appostò su un dosso tra Spino e Bracca, certo di colpire la preda che i suoi cani stavano braccando. Al momento dello sparo però fallì il bersaglio e, nell’enfasi, cominciò a urlare «dagliela!» per incitare i cani. Quelle stesse grida richiamarono l’attenzione di Pacì Paciana, nascosto lì vicino. Il brigante, intuendo la scena, imbracciò il fucile, abbatté la lepre con un colpo perfetto e, rispettoso della regola venatoria che assegna la selvaggina “sotto punta di cani” al loro padrone, andò a consegnarla al sindaco. Il primo cittadino, lusingato da quel gesto corretto, invitò Pacì a casa sua la sera stessa, alle otto, per cucinare e mangiare assieme la selvaggina. Il brigante accettò, ma il sabato mattina mise di vedetta lo scaltro amico Nicola, temendo un eventuale tradimento.

Carlo Ceresa
La beffa della cena e l’umiliazione del traditore

Poche ore dopo, i sospetti trovarono conferma: un certo Bonetti, messaggero di Zogno, entrò nella casa del sindaco e ne uscì con una missiva diretta ai gendarmi. Nicola lo seguì fino ad Ambria, lo fermò, gli perquisì le tasche, lesse il messaggio—che proponeva di cogliere Pacì a cena e arrestarlo—e poi lo lasciò proseguire intimandogli di non parlare con nessuno del controllo subito. Informato, Pacì Paciana decise di presentarsi comunque all’invito, ma con un’ora di anticipo. Alla vista del brigante, il sindaco, colto di sorpresa, chiese spiegazioni sullo scarto d’orario; Pacì gli rispose freddamente che voleva cenare prima dell’arrivo dei gendarmi «che lui stesso aveva convocato». Sbalordito, il sindaco negò ogni complotto, ma Pacì esibì la prova della lettera. Con tono perentorio gli ordinò di servire la lepre, lo legò saldamente con una corda alla sedia e al tavolo, gustò con calma il pranzo, quindi intimò al prigioniero di porgere i saluti al maresciallo e sparì tra le ombre. Più tardi, quando i gendarmi irruppero nell’abitazione, trovarono soltanto il sindaco immobilizzato e furibondo, mentre Pacì Paciana—ancora una volta—aveva beffato autorità e traditori.

Carlo Ceresa
Un giustiziere dei poveri, incubo dei potenti

Pacì Paciana era l’incubo dei gendarmi perché, con lo stile di un Robin Hood bergamasco, colpiva i benestanti arroganti e soccorreva i poveri. Nel folklore locale è ricordato non solo come ladro ma anche come “correttore” di usurai e prepotenti, bersagli privilegiati delle sue ritorsioni. Il suo nome circolava di borgo in borgo come quello di un giustiziere imprevedibile, sempre pronto a ribaltare i torti sociali.

Carlo Ceresa
Un giustiziere dei poveri, incubo dei potenti

Pacì Paciana era l’incubo dei gendarmi perché, con lo stile di un Robin Hood bergamasco, colpiva i benestanti arroganti e soccorreva i poveri. Nel folklore locale è ricordato non solo come ladro ma anche come “correttore” di usurai e prepotenti, bersagli privilegiati delle sue ritorsioni. Il suo nome circolava di borgo in borgo come quello di un giustiziere imprevedibile, sempre pronto a ribaltare i torti sociali.

Carlo Ceresa
Taglie, tradimenti e l’alleanza con Nicola

La notevole taglia sulla sua testa attirava cacciatori di taglie e banditi senza scrupoli, così la gente onesta tendeva a chiudersi in casa quando si diffondeva la voce della sua presenza. In questa atmosfera di sospetto, l’unico alleato sicuro era l’amico d’infanzia Nicola di Endenna, che lo teneva costantemente informato sui pericoli. Per dormire al riparo dai rastrellamenti, Pacì sfruttava i cimiteri di Bracca o di Stabello, punti isolati ma strategici da cui controllare eventuali inseguitori.

Carlo Ceresa
Scontro col parroco: oro alla fame, non alla chiesa

La sua generosità fu però duramente criticata dal parroco di Sedrina, che in sermone ammonì i fedeli a non accettare denaro “rubato”. Pacì si presentò allora in canonica, rivendicò la legittimità del suo operato e, puntando l’arma, costrinse il prete ad aprire un cassetto colmo di marenghi d’oro. «La chiesa può aspettare, la fame no», disse portando via la cassetta per ridistribuirla ai bisognosi. Le grida del sacerdote allertarono i gendarmi, che si lanciarono all’inseguimento.

Carlo Ceresa
Scontro col parroco: oro alla fame, non alla chiesa

La sua generosità fu però duramente criticata dal parroco di Sedrina, che in sermone ammonì i fedeli a non accettare denaro “rubato”. Pacì si presentò allora in canonica, rivendicò la legittimità del suo operato e, puntando l’arma, costrinse il prete ad aprire un cassetto colmo di marenghi d’oro. «La chiesa può aspettare, la fame no», disse portando via la cassetta per ridistribuirla ai bisognosi. Le grida del sacerdote allertarono i gendarmi, che si lanciarono all’inseguimento.

Carlo Ceresa
Il tuffo dal ponte: l’ennesima fuga leggendaria

La sua generosità fu però duramente criticata dal parroco di Sedrina, che in sermone ammonì i fedeli a non accettare denaro “rubato”. Pacì si presentò allora in canonica, rivendicò la legittimità del suo operato e, puntando l’arma, costrinse il prete ad aprire un cassetto colmo di marenghi d’oro. «La chiesa può aspettare, la fame no», disse portando via la cassetta per ridistribuirla ai bisognosi. Le grida del sacerdote allertarono i gendarmi, che si lanciarono all’inseguimento.

Carlo Ceresa
Il padrone della Val Brembana

Pacì Paciana era descritto come un uomo alto, robusto e temerario, tanto che la gente lo soprannominava “il padrone della Val Brembana” perché ne attraversava paesi e mulattiere senza timore. Parenti e valligiani lo stimavano: aiutava i bisognosi, difendeva gli oppressi e finanziava la sua “giustizia” prendendo denaro ai ricchi arroganti. Proprio questa fama di Robin Hood lo rese il bersaglio principale dei gendarmi napoleonici, sempre in caccia di chi potesse incassare la consistente taglia che pendeva sul suo capo.

Carlo Ceresa
Il tuffo nel Brembo e la grande fuga

Una notte, rientrato furtivamente nella casa natale sul Ponte di Zogno, fu spiato da un uomo che corse a denunciarlo. In pochi minuti la pattuglia circondò l’edificio; Pacì, intuito il pericolo, uscì sul balcone affacciato al Brembo, allora in piena, e si tuffò senza esitare. Lasciandosi trascinare dalla corrente al buio, riemerse più a valle nei pressi dell’attuale stazione ferroviaria, eludendo le perquisizioni dei militari che, nel frattempo, avevano setacciato invano le stanze.

Carlo Ceresa
La beffa della gallina al comandante

Sempre quella notte il brigante si infilò nel pollaio del comandante dei gendarmi, adiacente alla caserma in piazza di Zogno, e da lì osservò l’arrivo concitato dei soldati insieme alla spia che lo aveva tradito. Con un misto di audacia e sarcasmo, attese che calasse il silenzio: poi azzittì una grossa gallina, le troncò le zampe e le inchiodò alla porta della caserma con un biglietto di scherno indirizzato al comandante, portandosi via il corpo dell’animale come bottino.

Carlo Ceresa
La punizione dello spione scalzo

Deciso a punire il delatore, Pacì si presentò alla sua abitazione e, con il fucile puntato, lo costrinse a seguirlo scalzo nella notte. I due camminarono fino al Fondone di Poscante; la spia, con i piedi sanguinanti e ormai sfinita, scoppiò in lacrime giurando che non avrebbe più venduto nessuno. Pacì, impietosito, legò l’uomo a un albero anziché giustiziarlo e riprese il sentiero verso i monti che gli servivano da rifugio.

Carlo Ceresa
La punizione dello spione scalzo

Deciso a punire il delatore, Pacì si presentò alla sua abitazione e, con il fucile puntato, lo costrinse a seguirlo scalzo nella notte. I due camminarono fino al Fondone di Poscante; la spia, con i piedi sanguinanti e ormai sfinita, scoppiò in lacrime giurando che non avrebbe più venduto nessuno. Pacì, impietosito, legò l’uomo a un albero anziché giustiziarlo e riprese il sentiero verso i monti che gli servivano da rifugio.

Carlo Ceresa
Il giudice itinerante della Val Brembana

Pacì Paciana era ormai un’istituzione ambulante: ovunque passasse, la gente lo fermava per ­chiedere denaro, risolvere liti su sentieri sconfinati, recuperare mucche scappate o confidargli guai di famiglia. Da “brigante buono” si trovava a fare da pretore, paciere e benefattore insieme, tanto che la sua fama cresceva di bocca in bocca lungo tutta la Val Brembana.

Carlo Ceresa
Taglie d’oro e predatori di briganti

Quella stessa popolarità, però, gli rendeva la vita sempre più difficile. I gendarmi napoleonici e i proprietari terrieri avevano fissato sul suo capo una taglia altissima, promettendo persino l’amnistia a delinquenti disposti a catturarlo. Così bande di briganti spietati, attirate dal denaro e dal condono, affluirono da ogni parte d’Italia per dargli la caccia.

Carlo Ceresa
Taglie d’oro e predatori di briganti

Quella stessa popolarità, però, gli rendeva la vita sempre più difficile. I gendarmi napoleonici e i proprietari terrieri avevano fissato sul suo capo una taglia altissima, promettendo persino l’amnistia a delinquenti disposti a catturarlo. Così bande di briganti spietati, attirate dal denaro e dal condono, affluirono da ogni parte d’Italia per dargli la caccia.

Carlo Ceresa
Un riscatto pagato di tasca propria

Una di quelle bande riuscì a sorprenderlo: due malviventi lo bloccarono e minacciarono di consegnarlo alle autorità. Pur di salvarsi, Pacì fu costretto a pagare di tasca propria l’intera ricompensa, riscattando così la propria libertà e dimostrando quanto fosse diventata alta la posta in gioco.

Carlo Ceresa
Vipera sulla Montagna Bruciata: il salvataggio di Nicola

Tempo dopo, mentre dormiva all’ombra di un albero sulla “Montagna Bruciata” fra Grumello ed Endenna, venne morso a una gamba da una vipera. Nicola, il suo fedele compagno, gli serrò la coscia con la cintura, incise la ferita, succhiò via il veleno e lo costrinse a correre fino a Grumello, dove gli fecero bere latte fresco come antidoto. L’intervento tempestivo gli salvò la vita.

Carlo Ceresa
Verso la Svizzera in cerca di cure

Da quel giorno, però, Pacì non fu più lo stesso: tremava, si stancava facilmente e si addormentava ovunque. Decise allora di abbandonare per un po’ la valle e rifugiarsi in Svizzera presso amici contrabbandieri, dove un medico poteva curarlo e i gendarmi non avevano giurisdizione.

Carlo Ceresa
Il tradimento di Carcino e la morte di Pacì Paciana

Il suo spostamento fu fiutato da Carcino Carciofo, brigante meridionale rifugiato in Val Seriana. Fingendo amicizia, questi lo raggiunse a Gravedona, sul lago di Como, e gli sparò a tradimento, uccidendolo per incassare la taglia. La notizia giunse presto in Val Brembana: gendarmi e signorotti tirarono un sospiro di sollievo, mentre la leggenda del “padró de la Val Brembana” cominciava a farsi mito.

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