È forse la pianta infestante più conosciuta al mondo. Appartiene alla famiglia delle graminacee e si caratterizza per un esteso apparato radicale, che può spingersi fino a due metri di profondità. Il rizoma, molto ramificato e strisciante, produce germogli appuntiti e conici: da qui deriva il nome del genere, che in greco significa “denti di cane”, proprio per la somiglianza con la dentatura canina.
I fusti sono ascendenti, ramificati alla base e raggiungono un’altezza compresa tra 10 e 30 centimetri. Le foglie sono piane, lineari e ben cigliate; al posto della ligula si trova un ciuffo di peli, che conferisce alla pianta il suo aspetto caratteristico. I fiori si dispongono in spighe terminali, da tre a sette, lineari e patenti. Ogni spighetta contiene un fiore ermafrodita inferiore (dotato quindi di organi sia maschili che femminili) e un fiore superiore abortito.

Plinio il Vecchio, scrittore e naturalista dell’antica Roma, fu tra i primi a descrivere le virtù della gramigna. Nella sua Naturalis Historia riportò i suoi usi come rimedio contro i calcoli e altre infezioni renali. Sono note infatti le proprietà diuretiche della pianta e la sua efficacia nelle infiammazioni delle vie urinarie. Sempre sotto controllo medico, può essere impiegata anche contro l’ipertensione e i foruncoli.
Per gli agricoltori rappresenta una delle infestanti più temute, ma i suoi rizomi sono ricchi di amido, mucillagini e zuccheri, da cui si ricavano decotti utili contro gotta, artrite e infiammazioni di fegato e milza. Non a caso, già duemila anni fa Plinio ne consigliava l’uso. Anche gli animali domestici ne sono attratti: la mangiano per purgarsi.
In cucina la gramigna ha diversi impieghi. Può essere usata come base per gelatine, pane, zucchero e perfino birra casalinga. In passato, le radici tostate venivano utilizzate come surrogato del caffè. Le foglie giovani si possono mangiare in insalata, mentre i germogli, biancastri e teneri, sono ottimi lessati e conditi con olio: un piatto nutriente, gustoso e decisamente insolito.

Repertòre di èrbe e piante bergamasche de mangià (tratto dal libro “Profumi e sapori di un tempo”, a cura di Cristian Bonaldi con la consulenza di Bonaldi Ruggero e Innocenti Maurizio – Corpo Forestale dello Stato).