
All’inizio del Seicento a Bergamo nasce una scuola pittorica autonoma: guarda a Milano ma non rinnega la tradizione veneta del Cinquecento. Il cantiere di riferimento resta Santa Maria Maggiore, frequentato da artisti forestieri (Padovanino, Nuvolone, Ricchi, Liberi, Ferri). Fra i locali spiccano Salmeggia, Cavagna, Zucco e Lolmo, ognuno con uno stile personale; nessuno, però, diventa vero “caposcuola”. In provincia i committenti scelgono spesso pittori già attivi in Santa Maria Maggiore, garantendo così una pluralità di linguaggi.
Le opere di Evaristo Baschenis e Carlo Ceresa definiscono l’identità pittorica di Bergamo fra terza e settima decade del secolo. Entrambi restano legati al realismo locale, lontano dagli eccessi barocchi. Baschenis, maestro di nature morte, compone oggetti con grande libertà e naturalismo; Ceresa punta su ritratti e pale d’altare basati su luce espressiva, dettagli minuti e intensa devozione.


Nato a San Giovanni Bianco il 20 gennaio 1609, Ceresa cresce senza maestri certi. Durante la peste del 1630 si rifugia in luoghi isolati; nel 1635 sposa Caterina Zignoni e ha undici figli, dei quali solo cinque arrivano all’età adulta. Grazie alle numerose commissioni vive agiatamente e negli anni ’60 si trasferisce a Bergamo, dove muore il 29 gennaio 1679. Fonti coeve lo descrivono come uomo retto, di poche parole e rigoroso nel lavoro; i suoi dipinti trasformano la vita quotidiana della Valle in immagini di valore universale.
Probabilmente autodidatta, Ceresa parte dai modelli bresciani e bergamaschi, usando ancora schemi tardo‑cinquecenteschi per i soggetti sacri. Nei ritratti, però, rivela subito talento: la morte dei maestri locali e i lasciti post‑peste moltiplicano le committenze. Tra 1631 e 1633 affina lo stile – forse dopo un soggiorno veneziano – e intorno al 1640 raggiunge piena autonomia, grazie anche allo studio di Daniele Crespi. Negli anni successivi alterna capolavori a opere ripetitive o delegate ai figli, a causa dell’enorme mole di lavoro e del gusto conservatore dei clienti.


Nei ritratti Ceresa unisce naturalismo rigoroso, realismo nei dettagli e sobria essenzialità. Predilige tagli ravvicinati, sfondi neutri e pose frontali: non basta la somiglianza, vuole rivelare carattere e sentimento. Mani eloquenti e sapienti effetti di luce diventano i suoi strumenti espressivi, rendendolo uno dei ritrattisti più importanti del Seicento italiano.

Superate le incertezze iniziali, Ceresa sviluppa un linguaggio sacro in linea con la Controriforma: figure composte, devozione intensa e forte aderenza al naturale. Lavora soprattutto per confraternite e parrocchie delle valli, dedicandosi ai soggetti più richiesti (Madonna del Rosario, Anime purganti, santi invocati contro la peste). Nei suoi quadri sacri inserisce spesso i donatori, creando un ponte tra ritrattistica e religione e rendendo i santi sorprendentemente “vicini” al fedele.
